20th Century Studios / Disney
Recensione

James Cameron ci è riuscito di nuovo: «Avatar: Fuoco e Cenere» è grande cinema

Luca Fontana
16.12.2025
Traduzione: Nerea Buttacavoli

Dopo due film di «Avatar», dovrebbe già essere stato detto tutto. Eppure «Fuoco e Cenere» riesce ancora a regalare nuove emozioni. Non perché sia più forte o più grande, ma perché questa volta James Cameron parte da dove fa più male: dalla perdita e dalla famiglia.

Questa recensione non contiene spoiler. Non svelerò più di quanto è già noto e visibile nei trailer. «Avatar: Fuoco e Cenere» è nei cinema dal 17 dicembre.

Ma dai. Non di nuovo. Non appena si accendono le luci in sala, ho di nuovo stampato in faccia quello stupido sorriso leggermente infastidito e incredulo. Dai, non posso scrivere la stessa cosa ogni volta che guardo un film di «Avatar». La situazione sta diventando assurda.

Eppure, non ho altra scelta: con il terzo film di «Avatar», James Cameron è riuscito ancora una volta a dimostrarmi quanto grande possa essere il cinema quando qualcuno non solo lo vuole, ma lo rende realtà senza compromessi. Quando la durata non fa paura, il pathos non ha un'accezione negativa e lo spettacolo non significa che tutto il resto venga meno.

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Beh. Ora sono di nuovo seduto qui. Davanti a uno schermo grigio e sobrio. Fuori nebbia, freddo e buio. E pochi minuti fa ero ancora su Pandora, su questa luna luminosa e splendente che respira colori, che pulsa, che vive. Ora devo esprimere tutto questo a parole.

Come se fosse così semplice…

Un nuovo punto di partenza

«Avatar: Fuoco e Cenere» è il primo capitolo di questa serie che non solo mi stupisce, ma mi tocca davvero. Non che sia meno audace dei suoi predecessori, anzi. Per la prima volta, Cameron osa davvero dare spazio ai suoi personaggi prima che lo spettacolo prenda il sopravvento. Il lutto, la famiglia e le fratture interiori non ostacolano le immagini. Le sorreggono.

Il film, infatti, riprende da dove si era interrotto «Avatar: La via dell'acqua»: la morte di Neteyam, figlio di Jake Sully (Sam Worthington) e Neytiri (Zoe Saldana), giace come un'ombra su di loro e sui loro figli. «Fuoco e Cenere» non ne fa un semplice pretesto emotivo, ma il proprio punto di partenza: una famiglia in lutto che rischia di disgregarsi proprio a causa di questo dolore.

Ogni personaggio affronta il dolore in modo diverso. Alcuni si chiudono, altri reagiscono con rabbia, altri ancora si aggrappano a doveri e responsabilità per schivare il dolore. Cameron impiega una sorprendente quantità di tempo per mostrare questa disintegrazione interiore senza risolverla immediatamente in azione o in nuove trovate visive.

Allo stesso tempo, la situazione su Pandora sta nuovamente peggiorando. Le persone sono ancora lì e sono ancora una minaccia. Ma a tutto questo si aggiunge un'altra forza inaspettata: una tribù Na'vi legata al fuoco che crede di essere stata abbandonata da Eywa, la forza vitale onnicomprensiva e divinità della luna. È proprio questo che alimenta la loro rabbia: bruciare tutto.

Fuoco e cenere.

La quiete prima dello spettacolo

È proprio questa riservatezza che rende «Fuoco e Cenere» così incredibilmente coraggioso. Perché Cameron fa qualcosa di cui non lo ritenevamo capace da tempo: dà la precedenza ai personaggi. Almeno all'inizio. Non corre da un'ambientazione all'altra, ma rimane con i suoi personaggi. Li lascia sognare. Li lascia litigare. Li lascia fare errori senza sormontarli direttamente con fuochi d'artificio visivi.

È notevole, soprattutto nel caso di un regista che per decenni è stato rimproverato che i suoi film siano sorretti più dalle immagini che dalle storie. Che l'emozione nasce dallo stupore, non dalla caratterizzazione dei personaggi.

«Fuoco e Cenere» inverte questo rapporto, almeno temporaneamente. Ed è proprio questo che conferisce al film un peso nuovo e sconosciuto: per la prima volta, Jake, Neytiri, la loro famiglia e sì, anche il Quaritch di Stephen Lang, non sembrano componenti di un mondo, ma persone – o Na'vi – con veri conflitti interiori.

James Cameron qui dà ai suoi personaggi molto più tempo per svilupparsi.
James Cameron qui dà ai suoi personaggi molto più tempo per svilupparsi.
Fonte: 20th Century Studios / Disney

Una cosa che mi colpisce particolarmente è che Cameron non intende il lutto come qualcosa di uniforme. Non si tratta di un interruttore drammaturgico che viene premuto per generare motivazione. No, il lutto si nutre di ogni personaggio in misura diversa. E cambia le decisioni. Le relazioni. La fedeltà. «Fuoco e Cenere» mostra quanto rapidamente una famiglia che si mantiene unita all'esterno possa iniziare a sgretolarsi all'interno, e quanto questo sia pericoloso in un mondo che è già sull'orlo del prossimo conflitto.

Solo su questa base lo spettacolo dispiega tutto il suo effetto. Quando in seguito si incontrano nuovi mondi, nuove culture e nuove minacce, non è come un fine a sé stante, ma come una conseguenza di ciò che è stato costruito in precedenza. Questo fa sì che lo stupore sia meno vuoto e abbia meno l'aria di programma obbligatorio. Bene.

Pandora in squilibrio

L'apparizione del popolo del fuoco in «Fuoco e Cenere» non sembra quindi un'altra deviazione esotica, ma piuttosto un'escalation deliberata. Questa tribù non è solo un nuovo espediente visivo, non è un'altra variante dei Na'vi da ammirare e spuntare dalla checklist, ma rappresenta un mondo che ha perso la sua coesione interna. Una cultura che crede di essere stata abbandonata dallo spirito di Pandora e ne trae una conseguenza distruttiva.

Oona Chaplin fa un debutto davvero impressionante in «Avatar» nel ruolo di Varang, leader della tribù del fuoco.
Oona Chaplin fa un debutto davvero impressionante in «Avatar» nel ruolo di Varang, leader della tribù del fuoco.
Fonte: 20th Century Studios / Disney

Come risultato, cambia anche il carattere stesso di Pandora. La luna non è più solo una superficie di proiezione di bellezza e armonia, ma un sistema in squilibrio. Un luogo in cui anche coloro che un tempo vivevano in armonia con essa, cominciano a mettere in discussione le sue regole. Fuoco e cenere non sono solo un leitmotiv estetico, ma la logica estensione delle rotture emotive che Cameron ha precedentemente stabilito all'interno della famiglia Sully.

Solo a questo punto il film si lascia andare a una nuova escalation. Solo allora lo spettacolo ritorna più grande, più rumoroso e più travolgente che mai. Nuovi mondi si aprono, nuove culture si scontrano, nuove minacce aggravano la situazione. Ma questa volta l'intensificazione non sembra d'obbligo perché la terza parte deve per forza essere più grande della seconda. Sembra preparata.

Addirittura meritata.

In «Via dell'acqua» piuttosto in secondo piano, qui di nuovo molto più presente: Zoe Saldana nel ruolo di Neytiri.
In «Via dell'acqua» piuttosto in secondo piano, qui di nuovo molto più presente: Zoe Saldana nel ruolo di Neytiri.
Fonte: 20th Century Studios / Disney

E poi, naturalmente, c'è l'altro motore di Cameron che qui gira a pieno regime: l'impulso incondizionato a spingere ancora più in là i confini tecnici del cinema. Sì, «Fuoco e Cenere» è un altro tentativo quasi megalomane di ridefinire ciò che è attualmente possibile.

Cioè – questo linguaggio visivo, la profondità dei dettagli, il modo in cui i mondi, i corpi, il movimento e la luce interagiscono – tutto questo non solo sembra più grande, ma anche più preciso. Controllato. Come se Cameron avesse aperto ancora una volta una cassetta degli attrezzi che nessun altro ha mai usato. L'ormai settantunenne canadese mostra qui con particolare chiarezza ciò che lo ha sempre caratterizzato: la sua convinzione che il cinema può fare qualsiasi cosa, purché si basi su qualcosa.

Un finale forte dallo schema familiare

Tuttavia, «Fuoco e Cenere» non è del tutto privo di pattern familiari. Nell'atto finale, tra l'altro, Cameron ricorre ancora una volta a un trucco drammaturgico che conosciamo fin troppo bene dai precedenti film di «Avatar». L'intensificazione segue una struttura che sembra familiare – non sbagliata, non inefficace, ma chiaramente riconoscibile. Si sente che questo percorso è collaudato. Forse anche troppo.

Ogni volta che penso di aver visto in «Avatar» tutto ciò che potrebbe stupirmi, vengo smentito.
Ogni volta che penso di aver visto in «Avatar» tutto ciò che potrebbe stupirmi, vengo smentito.
Fonte: 20th Century Studios / Disney

Questo è tanto più degno di nota in quanto il film, prima di arrivarci, per lunghi tratti trova il coraggio di prendersi il suo tempo. Lasciare respirare i personaggi. Non inasprire immediatamente i conflitti. È proprio questa pazienza a rendere così solida la parte centrale di «Fuoco e Cenere» e a far apparire il finale, nel confronto diretto, un po' più convenzionale di quanto dovrebbe essere.

Ciononostante, la resa dei conti continua a funzionare dal punto di vista emotivo. Le immagini sono potenti, la tensione alta, la messa in scena grandiosa, la durata epica. Ma la sorpresa non si concretizza. Chiunque abbia familiarità con il franchise avrà un'idea della direzione in cui si sta sviluppando la dinamica molto prima che il film ci arrivi. Questo non toglie nulla all'impatto emotivo, ma impedisce a «Fuoco e Cenere», proprio all'ultimo momento, di compiere il passo decisivo che lo allontanerebbe dallo schema familiare per approdare a qualcosa di davvero nuovo.

In breve

Che dire, è stato di nuovo grande cinema

Mi dà quasi fastidio doverlo scrivere di nuovo. Ma sì: James Cameron è ancora più che capace di creare grande cinema. «Avatar: Fuoco e Cenere» è un'opera cinematografica monumentale che ha ancora più cuore di quanto sia già stato riconosciuto a questo franchise. Non tutto è sorprendente, soprattutto verso la fine. Ma rimane impresso abbastanza per far sì che questo film si distingua di gran lunga dal solito blockbuster mediocre.

Ciò che rimane è la sensazione di perdita, non solo nel film, ma anche dopo. Questo essere strappati da un mondo che brilla, respira e vive, in una realtà che improvvisamente sembra più quieta. Più grigia. Più piccola. «Fuoco e Cenere» non è escapismo che lenisce. È un'opera che ci tocca perché ci ha dato qualcosa in anticipo: personaggi, emozioni e conseguenze. È proprio per questo che dire addio a Pandora fa di nuovo un po' male.

E forse è proprio questo il più grande merito di questa terza parte: non che reinventa tutto, ma che dimostra ancora una volta a cosa può servire il cinema quando qualcuno ha il coraggio di pensare in grande senza dimenticare il motivo per cui lo guardiamo. Per questi momenti. Per lo stupore. E per quella sensazione che permane a lungo dopo il ritorno della nebbia, dell'inverno e dell'oscurità.

Io ti vedo, Pandora.

Immagine di copertina: 20th Century Studios / Disney

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Scrivo di tecnologia come se fosse cinema – e di cinema come se fosse la vita reale. Tra bit e blockbuster, cerco le storie che sanno emozionare, non solo far cliccare. E sì – a volte ascolto le colonne sonore più forte di quanto dovrei.


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